LE FESTE

di Mario Arpea tratto da “La strada del ritorno” – Edizioni dell’Altipiano 1971

Le feste, grandi e piccole, si celebravano quasi tutte in estate e cominciavano con S. Leu-cio che coincideva con l’inizio delle vacanze ed era antici-pata di una settimana solo da S. Lu-cia. Poiché que-sta santa era molto venerata, quel giorno le strade dell’Altipiano erano percorse fin dall’alba da lunghe teorie di carri provenienti dalla Marsica. Fino a sera, poi, intorno al san-tuario, ardevano fuochi e si arrostivano carni per il tradizionale “cerriglio”.
Per S. Leucio, chi non tornava — diceva il proverbio — ” u z’era mort, u z’era perdute “.
E invero, si può dire che tutti accorressero ad un appuntamento atteso per un anno. Per l’occasio-ne, si rinnovavano gli indumenti ai figli, il rame per le mogli, gli arnesi di campagna ed era l’esaudimen-to di un’aspirazione alimentata per una stagione in-tera ed espressa costante-mente nella stessa frase: «A S. Leucio, se Dio vuole».
E poi, arrivavano i forestieri: tanti, dai paesi circonvicini, ed anche loro si accodavano alla pro-cessione che saliva sul ” Colle ” e andavano ad ingrossare la già grande folla di fedeli.
Non dissimili erano i riti e le caratteristiche delle altre feste minori che si celebravano in paese negli altri centri dell’Altipiano (l’Assunta, S. Loren-zo, S. Sebastiano). Solo la Fiera usciva dall’abituale “chliche” delle tante ricorrenze d’origine religiosa per assumere il tipico aspetto della sagra-mercato, fatta di immagini, di consuetudini e di personaggi che ancora oggi mi sono rimasti profondamente in-fissi nella memoria.
Il risveglio te lo dava lo sparo. Giungevano, quei tonfi, come da lontananze di sogno e sembrava che appartenessero ancora a quel mondo che il rumoroso annuncio della festa ci co-stringeva a lasciare.
Poi cominciava il tamburo. Tamp-te – Tamp-te.
Un suono sordo e monotono che ristagnava nel-l’aria tersa dell’alba, finché non lo di-sperdevano i tocchi allegri della campanella mattutina. Ma già sopraggiungevano le prime note della banda, pronta a compiere l’augurale giro del paese.
Allora subentrava la smania d’alzarci; di andare alla finestra per vedere quanta gente fosse già af-fluita durante la notte per partecipare alla fiera, di accertarci che il tempo era buono.
Stavano, già a quell’ora mattutina, uomini e animali alla rinfusa sull’aia della Fonte, vo-ciando e im-precando nel calore delle iniziate contrattazioni.
Imbonitori, sensali, imbroglioni, zingari, e men-dicanti arrivavano alla spicciolata e anda-vano a me-scolarsi a quel piccolo mondo in fermento che si era attestato per un giorno al limitare del paese.
C’erano — immancabilmente — Rotellini e il “crastaporchetti”; l’uno — poveretto — sempre in cerca di cavalli da corsa, l’altro con bene in mostra i simboli del suo crudele me-stiere; c’erano l’arrotino e l’ombrellaio, il cantastorie e l’indovino (che si faceva chiamare — per far presa sulle donne — con il nome pomposo di chiromante)
A noi la fiera piaceva per la confusione. Mai, neppure per S. Leucio, si vedeva tanta gente e tanta roba in piazza e tanta animazione in paese. Le bande mu-sicali erano quasi sempre due (e le famiglie facevano sempre a gara per ospitarne a pranzo almeno uno dei componenti) i parenti affollavano le banca-relle degli orefici per comprare il ” finimento ” d’oro alle spose, i ” butteri
grugnente acquistato di fresco e le donne li accompagnavano recando come un trofeo la tradizionale “scerta ” di cipolle.
Al momento della processione, attendevano tut-ti il passaggio degli “starnardi” (gli sten-dardi) che i giovani più abili e robusti tenevano in bilico nella bocca o sulla fronte, per l’am-mirazione degli astanti e l’emulazione dei ragazzi.
Poi, verso l’ora del pranzo, subentrava un po’ di quiete, ma intanto, già pregustavamo le corse dei cavalli, i giochi del pomeriggio, tra i mucchi di pula e le balle di paglia rimaste sull’aia e soprattutto la danza della pupazza che concludeva a mezzanotte la giornata.
* * *
Tuttavia, la festa più attesa era Natale. Nessun’altra festa infatti — come Natale — ri-porta agli anni dell’infanzia. Credo, anzi, che ognuno conservi di Natale solo il ricordo di quel tempo. Per me — e forse per tutti — quella stagione soltanto rimane in fondo al cuore con la sua immutata carica di suggestione, di poesia e di favola. Rammento la neve (c’era sempre la neve, allora, a rendere reale il paesaggio da presepe) che scricchiolava sotto le scarpe la sera della vigilia, tant’era ghiaccia, oppure ammorbidiva i passi della gente che si recava a “lu ma-teddì “, se cadeva alta per le vie; rammento il “ciocco” nel camino (il più grande che ci fosse in legnaia) che doveva ardere tutta la notte per far scaldare la Madonna e il Bambino e a quel gran fuoco rivedo arrosolarsi allo spiedo il capitone, per la tradizionale cena e mio padre che ripeteva lì davanti il ritornello d’occasione: “l’abate Cicerone / fuorché lu capitone / volea senza pietà / broccoli, vermicelli e baccalà”; rammento le visite augurali degli amici di casa tornati allora allora (perché tutti cercavano di tornare in famiglia, magari ” sficcando ” nella neve su per le voltate di Terranera), tra cui immancabile quella di ” zi ” Giosuè, uno degli uo-mini più buoni e generosi che mai abbia espresso la Rocca; rammento il da fare di mamma per preparare la “cunfetta ” e la “ranata ” che si distribuiva la mattina e il puntuale arrivo della sagrestana per ritirare la farina del Bambino; rammento la chiesa illuminata e gremita di gente che cantava « tu scendi dalle stelle » e si commuoveva quando a mezzanotte, tra il suono delle campane, don Pasquale passava per le navate mostrando a tutti Gesù Bambino e noi ragazzini — più addormentati che svegli — pensavamo che in quel momento, nelle stalle ermeticamen-te chiuse, anche le bestie si inginocchiavano e si facevano il segno della croce.