L'ASSEDIO DI BRACCIO FORTEBRACCIO
di Mario Arpea tratto dal libro “Roccadimezzo e l’Altipiano” – Japadre editore 1999
Le milizie di Braccio Fortebraccio, assalirono i paesi dell’Altipiano il 26 luglio 1423, circa tre mesi dopo che il condottiero perugino era entrato in Abruzzo con il segreto disegno di impadronirsi dell’Aquila.
Nei primi anni del ‘400, Roccadimezzo contava un migliaio di abitanti ed era il più popoloso dei castelli del contado aquilano, insieme a Paganica, Pizzoli e Lucoli, che la seguivano per numero di fuochi.
La consistente dimensione demografica dei suddetti centri (ognuno forte di circa duecento famiglie, per l’epoca non poche) era sostenuta dal favorevole andamento delle attività armentizie, che le “Arti”
del capoluogo s’incaricavano di valorizzare ricavandone a loro volta lucrosi vantaggi mercé la lavorazione della lana e delle pelli.
A quel tempo il rapporto tra città e castelli fondatori s’era andato sempre più logorando a cagione delle
controversie patrimoniali che di tanto in tanto scoppiavano ad inasprirlo; ma il patto consociativo che
aveva presieduto alla nascita dell’Aquila, virtualmente durava.
In realtà, il potere s’era tutto spostato dalla parte di quella sorta di città -stato che era divenuta l’Aquila e in cui erano saliti vieppiù d’importanza gli esponenti di famiglie i arrichitesi con i proventi delle terre e l’esercizio della marcatura e che la governavano con criteri egemoni.
Quest’atteggiamento di sostanziale predominio, si estrinsecava innanzitutto nei confronti della campagna, sottoposta a un’esosa pressione fiscale: donde un diffuso malcontento e continui ricorsi al re, quasi sempre inascoltati.
Frizioni, animosità e liti si ricomponevano tuttavia quando bisognava far fronte al nemico che veniva dall’esterno e non risparmiava nessuno. Come nel caso della venuta di Braccio Fortebraccio.
Braccio, come si è detto, era penetrato nel contado aquilano il 7 maggio 1423, mettendo campo a Roio, donde tra blandizie e minacce si spingeva sotto le mura del capoluogo nell’intento di accattivarsi il favore dei maggiorenti della città.
Alle ripetute richieste del condottiero perché gli abitanti gli facessero atto di obbedienza e gli fornissero gli aiuti dovuti in qualità di governatore nominato dalla Regina, fu costantemente
opposto un netto rifiuto, chiudendogli in faccia tutte le porte.
Irato per l’affronto, sferrò furiosi attacchi, ma resosi conto dell’inutilità dei tentativi, decise di far terra bruciata intorno all’Aquila, attaccando ad uno ad uno tutti i castelli più importanti dei dintorni.
Impreparati a difendersi e lasciati al loro destino, caddero uno dopo l’altro Pizzoli, Paganica (che resistette dal 13 al 21 maggio), Fossa, S. Demetrio, Assergi, Barisciano Ocre.
Solo contro Stiffe risultò vano l’assalto, per la strenua difesa opposta da Antonuccio de Simone.
Toccava ora ai castelli più elevati del Contado, Roccadicambio e Roccadimezzo. Il primo, privo di muri, all’arrivo di Braccio, capitolò senza opporre resistenza.
Assicuratasi quella posizione, la mattina del 26 luglio spedì un’ambasceria sul lato opposto della
montagna, al conte Bonomo signore di Corvaro e ai massari e alle università delle terre a questi
appartenenti con l’ordine di requisire bestiame, uomini e altre robe appartenenti agli aquilani e di consegnarle a Ludovico suo cancelliere.
Gravi sanzioni erano minacciate contro chi si fosse rifiutato di obbedire. Dopodiché attraversò
in forze la piana per mettere sotto assedio Roccadimezzo, ultima terra del Contado.
La Rocca, vista la piega degli avvenimenti, non si era fatta trovare impreparata, perché aveva
rafforzato le difese, ritirato nelle stalle il bestiame e fatta scorta di legna, di acqua e di foraggio.
Fortunatamente il castello — ritenuto fedelissimo all’Aquila e ai Camponeschi, tanto è vero che proprio lassù venivano condotti e custoditi importanti prigionieri della città — aveva trovato un valoroso capo in Marco di Sante Rustici, rampollo di una delle famiglie più nobili della Rocca, esperto di comando e già distintosi in altri fatti d’arme.
Si deve, infatti alla sagacia e al coraggio di quest’uomo se la Rocca poté reggere per quasi dieci mesi all’assedio, contribuendo con il suo sacrificio a rendere meno critica la situazione del
capoluogo.
Rammenta l’Antinori che giunto davanti alla porta Morge come d’uso il Fortebraccio cercò di
parlamentare:
“…cominciò per la via delle persuasive più dolci, ma avuta risposta negativa e concorde passò alle minacce.
Vi adunò la maggior copia di fanti e di cavalli e fornito il campo di foraggi, cominciò a tempestare la terra a colpi di bombarde”.
Mentre egli personalmente presiedeva all’organizzazione dell’assedi, spediva i suoi capitani a razziare le ville e compiere scorribande nei dintorni, a valle addirittura
a l’Aquila così come toccò a Niccolò Guerriero che con un distaccamento di genieri e di cavalli si presentò davanti alla porta della Barete.
Stava ormai da dieci giorni sull’altipiano a studiare le mosse dell’attacco, quando il 5 agosto Braccio Fortebraccio decise di dare l’assalto alla Rocca.
Trovò una resistenza accanita, da parte dei difensori, tanto che molti dei suoi vi persero la vita
nonostante fossero armati di corazza e di maglie, schiacciati da grandi sassi e da cantoni riquadrati
gettati dall’alto delle bastionate.
La cinta muraria subì guasti qua e là, ma non tali da permettere l’ingresso degli assalitori. Pensò allora Braccio — per evitare ulteriori perdite fra i soldati — di prendere gli assediati per sete e ordinò di deviare il corso del rio Gamberale, fiducioso (si era al colmo dell’estate) che la mancanza
d’acqua avrebbe piegata la popolazione.
Manovra vana, perché i rocchiggiani risposero alla sfida rovesciando bigonce d’acqua dall’alto e spingendo fuori dalla porta un vitello satollo di grano, quasi per avvertire che mai sarebbero stati presi per fame e per sete.
L’ll agosto, dopo una settimana di inutili attacchi, Braccio all’improvviso, lasciato un presidio
attorno al castello, riportò il grosso delle compagnie nelle vicinanze di Aquila.
Gli era stato fatto intendere che un gruppo di congiurati contrari alla guerra e nemici mortali dei Camponeschi (e del Vescovo che li sosteneva) avrebbero socchiuso nella notte del 14 agosto una porta della città.
La trama fu scoperta, gli autori sorpresi mentre tentavano di fuggire verso il campo di Braccio e fatti a pezzi all’istante, così come narra Niccolò da Borbona.
Ritornò allora Braccio ad accanirsi contro i castelli che ancora resistevano, vieppiù incattivito
dalla piega negativa degli avvenimenti.
Ma nel frattempo, approfittando dell’attenuata vigilanza degli assedianti, i difensori della Rocca avevano riparalo i danni alle mura ed effettuato alcune sortite per ricostituire le scorte.
Le complesse vicende di una guerra che ogni giorno presentava nuovi scacchieri e repentini capovolgimenti e che s’era ormai allargata a mezza Italia, costringevano nell’autunno Braccio a
distogliere un nutrito contingente di soldati dal territorio aquilano, per inviare alcune compagnie
di rinforzo agli alleati fiorentini che invocavano soccorso e 200 cavalli a Napoli dove l’infante Don
Pedro era rimasto solo dopo la partenza per la Spagna di re Alfonso, in cerca di aiuti, (ottobre).
Non cessava tuttavia di sferrare attacchi contro gli aquilani che reagivano con audaci sortite e contro quei due o tre castelli che tenevano disperatamente alto il vessillo della resistenza.
Si stava intanto avvicinando l’inverno, con tutte le pesanti difficoltà che avrebbe comportato per i contendenti. «L’inverno di quell’anno — scrive il Milli — fu d’estrema durezza,
che mise a durissima prova sia gli assediati che gli assedianti, ambedue ridotti al limite delle possibilità umane, ma entrambi costantemente fermi, malgrado i disagi e le sofferenze, nelle loro opposte intenzioni. (pag.209).
Gli aquilani, però s’erano rincuorati alla notizia che erano partite da Napoli le milizie di Muzio Attendolo, inviate al soccorso dalla regina Giovanna.
E subito Antonuccio Camponeschi si era affrettato a risollevare il morale ai difensori di
Roccadimezzo con la seguente lettera inviata il 17 dicembre a Marco di Sante Rustici.
«Magnifico viro et egregio militi d. Marco de Rustici de Rocca Medii de Aquila
Amico carissimo
«Ad Roccam Medii — magnifice vir — havemo inteso il fedele officio che la terra di Roccadimezzo ha usato in difendersi dalla rabbia di questo scomunicato di Braccio et in ributtarlo indietro; et che il tutto è stato fatto per opera et diligentia vostra et de le vostre genti, conforme alla fiducia che la città et casa nostra ha sempre avuto di voi; però ve ne stamo in grande obbligo et di quanto avete fatto ve ne rimeteremo appresso, esortandovi che l’istesso
officio vogliate fare di mano in mano, adoprando il vostro buon giudizio et sapere, come buon soldato che siete; et occorrendo alcuna cosa necessaria, fatevi intendere al meglio che si può, che non si mancherà provvedersi subito. Dio da mal ti guardi. Datum Aquilae 17 decembris 1423. Al piacer vostro Antonuccio Camponesco»
Sennonché, pochi giorni dopo arrivava la tragica notizia della morte di Muzio Attendolo, travolto dalle acque del Pescara mentre tentava di attraversarlo.
L’annuncio gettava nella costernazione gli aquilani, rassegnati ormai a dover contare solo sulle loro residue forze, di fronte ad un nemico deciso a farla finita. Ma fu proprio la
consapevole certezza di tale realtà che spinse gli assediati a resistere fino alla morte.
E così, mentre allontanavano dalla città i vecchi e per far tesoro dei viveri di cui si lamentava
la mancanza, gli uomini di Antonuccio Camponeschi raddoppiavano le sortite disperate che — come rammenta Nicolò da Borbona — si succedevano sanguinose in mezzo a un tempo infame (si era in febbraio).
Li sosteneva nella lotta il pontefice Martino V, che stava raccogliendo truppe e che li incitava a resistere contro quello “scomunicato” di Braccio emanando una bolla che ebbe il potere di spingere alla ribellione alcuni piccoli castelli del contado, che però il condottiero perugino mise subito a ferro e fuoco.
Anche a Roccadimezzo si viveva di speranze, ma a primavera la resistenza era allo stremo.
Braccio capì che era arrivato il momento, e ai primi di aprile strinse le maglie
dell’assedio.
Racconta l’Antinori che “vi adunò attorno fanti, cavalli e artiglierie e fornito il campo di foraggi, cominciò a tempestare la terra con colpi frequenti di bombarde.
Fece poi scavare gallerie, da più lati della rocca e alcune di esse se ne rincontrarono
insieme, senz’alcun suo vantaggio.
Dovette al fine tutto ai colpi di una bombarda che ben diretta ad un terreno debilitato al di sotto di una di quelle cave, lo fecero sfondare e con esso rovinò il torrione che vi era edificato di sopra e che a forza di colpi di pietra fu aiutato a piombare abbasso, ed aprirono così la strada agli oplatori”
Un altro cronista – Emidio Mariani, che quasi alla lettera si rifà alla narrazione antinoriana — così continua:
“Penetrarono per quelle rovine alcuni pochi soldati dentro le mura e rotte parti di quelle e le porte, aprirono la strada agli altri. I quali entrarono a 23 di aprile giorno solenne di Pasqua di Resurrezione, nella notte a quella seguente presero la Terra, nella quale peraltro si era
disposto qualche tratto; ne predarono tutte le robbe, e tra l’altro vi trovarono grani ed argenti.
Fecero prigionieri tutti gli uomini, e li mandarono alla Città di Teramo. Delle donne gli un fecero dono agli altri, e di oltre a cento di esse, fattane una radunata, le spogliarono e pur come avevano fatto di quelle di S. Pio delle Camere, nude le mandarono all’Aquila.
Lo spettacolo fu più acerbo; giacché di esse molte portavano bambini, ed alcune uno in braccio, e l’altro per mano. Si replicavano allora contro di Braccio i titoli, e le imprecazioni di crudele, di cane, e di maledetto.
Non la perdonarono a lui gli stessi suoi lodatori, e persino i migliori del suo esercito; l’imputarono che oltre l’uccisione dei terrazzani, mentre si difendevano, quasi che la fortuna nel cambiare la felicità di lui, gli volesse eziando cambiare i costumi, avesse dato troppo libera licenza ai soldati d’usare qualsivoglia disonestà, e piuttosto crudeltà contro uomini e donne d’ogni sorte, mercè che gli uomini liberi erano stati dati in preda a soldati, e le donne
fatte loro tagliare le vesti alla cintura, erano state così mezzo nude cacciate per forza alla volta dell’Aquila, e divenute bruttissimo spettacolo a cittadini. Aggiungevano che per l’addietro egli avea sempre nell’espugnazione delle Terre con gran diligenza atteso a
conservare loro l’onore: che in Acerra, perché un Capitano volle fare violenza ad una zitella, l’uccise, ed in Capua fece pestare un soldato, per aver detto ad una donna parole di
poco rispetto.
Ma che ora cominciava colla sorte a cambiar natura e non ebbe neppur rispetto alla modestia, ed alla dignità propria. Sino i suoi soldati biasimavano quella sua rabbia crudele, e
sfrenata, spargendo voci per tutto il campo, e condannavano o l’ira, o la nuova sevizia del Capitano. Altri accusando la sua troppo lunga felicità, davano ad essa la colpa di quella insolenza nata dalla prosperità di successi.
Ed alcuni altri dicevano essere ciò avvenuto per natura di lui, e non per collera straordinaria, perciocché altre volte ancora si era mostrato nemico di quei, che repudiava perfidi, e disleali, benché nelle altre azioni fosse piacevole, ed umano.
Comunque siasi quel modo di procedere, non solo crebbe l’ostinazione negli animi degli Aquilani, ma da avversari li fece divenire suoi capitali nemici. E se alcuni erano dalla parte di
Braccio, si mutarono, di maniera che deliberarono piuttosto di morire, se il bisogno lo richiedeva,
che arrendere la Città….» (v. Emidio Mariani. Castelli aquilani. Tomo V/B mss. c/o Bibl.
Provinciale Aquila). (12)
Distrutto e saccheggiato Roccadimezzo, dispersa la popolazione, Braccio si allontanò dall’altipiano attestandosi con il grosso dell’esercito a Civita di Bagno, per concertare con i suoi i piani dello scontro finale.
Ma l’aver lasciato completamente sguarnito il fronte delle Rocche, fu un fatale errore, perché
gli strateghi della lega antibraccesca decisero di far ricongiungere proprio sull’Altipiano le colonne di soccorso provenienti da Napoli e da Roma. Verso la fine di aprile infatti le milizie della Regina Giovanna comandate da Jacopo Caldora si erano
messe in marcia dal napoletano verso l’Abruzzo, con una giornata di anticipo sulle compagnie papali di Ludovico Colonna, Santo Parente da Cotignola, Luigi Sanseverino e dal Cardinale spagnolo Alfonso Carillo, le quali da Roma per la Sabina e il Cicolano avrebbero dovuto porsi agli ordini del Caldora (13) una volta raggiunto l ad i mezzo.
Queste ultime compagnie scortavano le salmerie con le provviste destinate agli aquilani, stremati dal prolungarsi dell’assedio.
Memori della triste fine di Pietro Navarrino, (14) era stato deciso che, per evitare agguati, non seguissero l’itinerario romano di Alba e Forme, ma raggiungessero l’altipiano per gliim pervi passi del Velino. Con quale fatica lo avessero fatto, sta a dimostrarlo la estrema
difficoltà che quei sentieri hanno sempre presentato al viandante per giungere ai piani di Pezza.
Comunque, il 25 maggio, quaranta giorni dopo la caduta del paese, le colonne dei rinforzi si erano ricongiunte a Roccadimezzo e ne fu dato avviso agli aquilani accendendo fuochi
dalle balze di Monte Cagno. (15)
Per circa una settimana l’esercito dei collegati sostò sulla piana per organizzarsi,
foraggiare i cavalli e prepararsi alla battaglia decisiva.
Impervia e insidiosa si presentava, ora, la discesa dalle Rocche verso l’Aquila, per cui Erasmo Gattamelata consigliava di attaccare il nemico — frazionato e attardato dai carriaggi
— lungo la tortuosa via che da Roccadimezzo conduceva alla Valle dell’Aterno,
sorprendendolo e privandolo delle vettovaglie: così i resti delle compagnie sarebbero stati costretti a una precipitosa ritirata e l’Aquila, privata definitivamente di ogni ulteriore speranza di aiuto, non avrebbe più oltre resistito.
Braccio, dopo aver ispezionato dall’alto di Monte (l’Ocre la dislocazione dei due eserciti
e aver esaminato il percorso che avrebbe presumibilmente seguito il Caldora nel difficile passaggio verso la Conca aquilana, comunicò la sua definitiva decisione che sembrò a molti dei suoi inspiegabile: «nessuno avrebbe contrastato l’esercito del Caldora nel difficile passaggio collinare verso la valle dell’Aterno, dove il suo esercito avrebbe atteso il nemico per la definitiva battaglia».
Mandò pertanto un trombetta all’avversario con questo messaggio: «non temesse di venire avanti, le gole dei monti stare per suo volere aperte e sicure. Scenda al piano e se ha core,
accetti battaglia: ivi l’attende».
Questa decisione doveva costare al Fortebraccio la vittoria e la vita, perché nello scontro decisivo — 2 / 6 / 1424 — il condottiero fu ucciso.
Fu una delle battaglie più sanguinose del medioevo. Vi morirono 3000 soldati e 1000 cavalli! (16)
NOTE
1) L’episodio dell’assedio di Roccadimezzo, s’inquadra nella lotta – iniziata nel 1421 – tra Luigi III d’Angiò
(prima avversario, poi sostenitore di Giovanna II) e Alfonso d’Aragona (adottato e poi ripudiato da costei); lotta che aprì una nuova nefasta fase nella guerra di successione per il Regno di Napoli. I più celebri capitani di ventura del ‘400 si schierarono al soldo dell’una o dell’altra parte, portando devastazione e morte. Le violenze si acuirono quando
l’Aragonese, perduto il favore della Regina, che aveva proclamato erede al trono l’Angioino (12 luglio 1423) si rivolse a Braccio Fortebraccio perché debellasse l’Aquila rimasta fedele alla Regina. E la guerra ridivampò intorno a
Due capisaldi: Napoli presidiata dagli aragonesi e l’Aquila stretta dalla durissima morsa di Braccio.
2) Angela de Matteis: L’Aquila e il contado: demografia e fiscalità (sec. \ V / XVIII), Napoli 1973.
3) Scrive Angela de Matteis (Op.cit.): «Ai primi del ‘400 l’industria arrnentizia era molto fiorente: da questa
attività traeva alimento una delle più importanti industrie manufatturiere, quella dei tessuti di lana… La produzione dei panni aquilani fu notevole durante tutto il sec. XV tanto che la città riuscì a piazzare presso la Regia Corte un quantitativo fisso di panni di lana ogni anno a partire dal 1487 per un valore corrispettivo di 2000 ducati, pari alla
metà della cifra dovuta da Aquila e Contado per i pagamenti fiscali ordinari».
4) L’Aquila – come è noto – era sorta per un patto di mutuo accordo tra i comuni contermini, i quali si erano resi conto dello sviluppo che avrebbero potuto avere se si fossero sottratti al dominio dei baroni che li angariavano.
5) Dotata di ampie autonomie amministrative, L’Aquila era —secondo lo storico napoletano Camillo Porzio — «tanto cresciuta di uomini, armi e ricchezza da essere tra le città del regno la prima repu tata dopo Napoli. Fondato
il principio in su la volontà e la benevolenza del popolo, essa come repubblica si reggeva ed era — in virtù di tale forza – meno delle altre terre aggravata d’imposte e la sua autorità anche da parte del sovrano, rispettata, temendosi che, se gli si scemasse l’amore in odio si convertisse. Primeggiava – è sempre il Porzio che parta – la famiglia Camponeschi che quasi ne aveva preso il principato e quando i re di Napoli volevano dalla città alcuna cosa ottene re,
era di mestiere guadagnare i Camponeschi». Cfr. Camillo Porzio: La congiura dei baroni del Regno di Napoli contro
Ferdinando I e altri scitti. A cura di E. Pontieri, Napoli 1964
6) «Gli amministratori del Comune aquilano – annota il Pontieri -furono soddisfatti quando Ladislao ebbe approvati i criteri da essi adottati nel ripartire il carico tributario tra le articolazioni geo grafiche e demografiche dell’“universitas” sulla base dei dati contenuti in un catasto dei fuochi e dei beni ch’era stato allora compilato dietro loro
ordine: erano criteri sostanzialmente conservatori, in quanto se le imposte apparivano più razionalmente ripartite tra
castra intus e castra extra , l’unità fiscale della comunità rimaneva immutata e il capoluogo continuava ad essere il
fattore determinante, come si deduce dall’obbligo fatto ad Antrodoco allorché nel 1412 veniva incorporato all’Aquila di pagare con questa le imposte da essa dovute al regio fisco. Questa e altre “grazie” erano tali da far dimenticare agli aquilani la loro antecedente opposizione armata alla successione al trono degli Angiò -Durazzo e di disporli ad essere fra i più fedeli difensori di detta dinastia».
7) «Nell’anno di Cristo 1423, a di 7 di maggio … venne nel nostro contado de l’Aquila, Braccio de Montone de Peroscia, come grande Conestevole de Madama la Reina Joanna secunna e de re Alfonso, re de Ragona, suo figlio
adottivo della regina preditta, mandato de loro comandamento. E lui diceva così avere le carti contro de Aquila per
lo governo de Aquila e de Abruzzo… E a 11 del mese de majo se ne venne con tutta la sua gente d’arme e cavalli che furono circa quatro mila e assai peduli coli targoni, infine alli steccati (della citta)…»: (Ved.: Nicolò da Borbona:
Cronaca dell’Aquila dal 1363 al 1424 in L. A. Muratori, Ant. Ital. Rer .Scriptores.)
8) Gli aquilani, spinti da Antonuccio Camponeschi, avevano intanto inviati ambasciatori a Luigi III d’Angiò, per portare al re l’atto di lealtà della città e del suo territorio. Tale atto di dedizione (Arch. Com. Aq., Codice II, privilegi c. 59 e 84), fu firmato da Luigi il 5 /5/1423. Dopodiché il re inviava all’Aquila un suo delegato con lettere di privilegio e il preciso incarico di spronare e di dirigere gli aquilani nella resistenza a Braccio. (Ved.:Nicolò da Borbona, Op. cit.)
9) Bonomo, aquilano, era stato investito della baronia del Corvaro che governava insieme al figlio Pietro
da Poppleto.
10) Giacomo Donadei che insieme al Camponeschi fu l’anima della resistenza aquilana. A lui doveva
succedere Amico Agnifili che dispose che la campana cittadina suonasse ogni sera a ventun’ore a ricordo della vittoria.
11) Il documento era conservato nell’Archivio Alfieri e ritrovato da Angelo Leosini.
12) La guerra di Braccio fu cantata da un poema epico di autore ignoto, a lungo, però, attribuito a Nic ola
Cimino detto il Ciminello. Vedi: Cantari sulla guerra aquilana di Braccio a cura di R. Valentini, Roma 1935. (Vedi anche: V. Parlagreco: La guerra di Braccio ed il poema di Nicolò Ciminello. L’Aquila Tip. Aternina 1903).
Nel cantare che qui sotto riportiamo vengono descritti i fatti succedutisi alla capitolazione di Roccadimezzo, cui si sono riferiti tutti gli storici che si sono occupati dell’avvenimento:
«Tucti li hominj fece fare prescjunj o quanta roba vi fo guadangiata granu ed argento de molte rasciunj
no llo contata lengua bactizata.
De femine l’uni a lli altri ne fa duni. De più de cento ne foro adunata como de Sancto Pio sci lle spolliaru
et in Aquila nude le mandaru».
«(Braccio) fece fare tutti gli uomini prigionieri; quanta roba vi fu trovata! Rastrellarono anche grano e argento, che non può raccontare lingua battezzata. Delle donne gli uni fecero dono agli altri, n e radunarono più di cento e
come era successo per le donne di S. Pio delle Camere così le spogliarono e le mandarono all’Aquila, nude».
13) Jacopo Caldora, altro famoso capitano di ventura del ‘400, già al servizio dell’Infante don Pedro d’Aragona, aveva sfacciatamente cambiato bandiera e si era posto agli ordini della Lega antibraccesca dietro un forte compenso e la
promessa che gli sarebbe stato confermato il feudo marchigiano. A lui la Lega aveva affidato il comando I elle sue truppe, con il compito di far pervenire i rifornimenti agli aquilani, evitando se possibile di impegnarsi in una
battaglia che poteva riuscire fatale.
14) Pietro Navarrino, inviato da Papa Martino V con truppe fresche e copiose vettovaglie in aiuto degli aquilani, aveva raggiunto Roccadimezzo per le vie di Pezza e stava scendendo verso valle quando fu sorpreso sotto Terranera da Nicolo Piccinino, uno dei più fedeli capitani di Braccio. Ma fece in tempo a rifugiarsi entro il castello di Stufe. Ne uscì dopo qualche giorno, convinto che gli assedianti se ne fossero andati. Invece si erano nascosti ad attenderlo; le preziose vettovaglie catturate e lo stesso Navarrino messo a morte entro il recinto fortificato di Ocre.
15) «… tam multos ignos accendunt ut eorum fulgores at aquilanis facile perspicientur… exhilaratur aquilana civitas huius modi
spectaculo». Angelo Pico Fonticolano: Bellum Braccianum..
16) Vastissima è la bibliografia su Braccio Fortebraccio e la guerra aquilana. Una delle biografie più recenti ed
esaurienti è quella di Giuseppe Milli: Andrea Braccio Fortebraccio, Perugia 1979.