Il santuario di santa lucia
Racconto del Professor Mario Arpea tratto dal libro "I giorni dell'Altipiano" ed. dell'Usignolo 1986.
Quanto lontana e nascosta era la chiesa della Trinità, così — vicina e visibile — era (ed è) quella di Santa Lucia.
Negli anni addietro, qualcuno vi ha eretto accanto due o tre fabbricati rurali, ma io me la ricordo isolata, su una delle pensili alture che chiudono a settentrione il tenimento delle Prata.
Ancor oggi, affacciandomi al parapetto del terrazzo di casa, riesco a scorgere sul filo dei tetti, il santuario; ai piedi di Rocca di Cambio, quasi al margine della rotabile che porta all’Aquila e che in quel punto di valico poco o affatto si discosta dal tracciato romano, disegnato dal Peutinger nella sua celebre tavola.
Quella strada, fin dalle prime luci dell’alba, la ultima domenica di giugno, era percorsa da un’interminabile teoria di carretti (i « traini »), quasi tutti provenienti dalla Marsica, che ha sempre professato una profonda devozione per la giovane martire, rappresentata dalla iconografia ufficiale nell’atto di mostrare —in segno di offerta — i suoi occhi deposti su un piatto, mentre stringe nell’altra mano, la palma della pace.
Non so dire come e quando il culto della santa sia pervenuto tra queste montagne: certo è che il tempio dove si venera risale — nelle forme attuali al tredicesimo secolo ed è monumento notevole, sia per le strutture architettoniche, sia per il valore degli affreschi che contiene. Esternamente non offre particolari motivi di richiamo, ove si eccettui il piccolo portale — di stile quattrocentesco, con leséne scanalate e capitelli corinzi di scuola rinascimentale — e il rosoncino del XII secolo. Di ben diverso interesse si presenta l’interno, laddove la struttura a tre navate mette in risalto sia le forme gotico-romaniche del tempio, sia l’incorniciatura cinquecentesca dell’altare. Attraverso una scaletta situata nella navata centrale, si accede alla sottostante cripta dove si può ammirare un pregevole ciborio del ‘500. Ma l’attrattiva più preziosa della chiesa è costituita dagli affreschi, che ornano tutte e tre le pareti del transetto e risalgono al XIV secolo. Rappresentano scene della vita di Santa Lucia, della Passione, della Resurrezione e dell’Assunzione di Maria Vergine; nonché l’Ultima Cena, che occupa un’intera parete del transetto e che costituisce il «pezzo » più originale del dipinto.
Ai tempi della nostra infanzia, S. Lucia non era stata ancora restaurata e come tutte le chiese campestri, ostentava vistosamente le ingiurie del tempo. Larghe chiazze d’umido alle pareti, tegole infrante, lesioni. Poiché era stata chiusa tutto l’inverno, entrando t’investiva acuto il sentore della muffa, mischiato a quello dei ceri e al profumo dell’incenso. Ma anche fuori, all’aperto, trionfavano gli odori — del fumo e dell’arrosto — alzati dai tanti fuochi che ardevano per il tradizionale « cerriglio ». L’attenzione con cui veniva seguita la cottura delle carni era intensa, tanto da giustificare l’impressione che gran parte di quella moltitudine accampata fuori della chiesa — dentro c’erano soprattutto le donne —fosse lì con la scusa del Santo, solo per fare onore al « cerriglio ». Per l’addietro, pensando all’etimologia di questa curiosa parola dialettale, ho creduto a lungo che essa avesse a che vedere con i «Cerri », località boscosa del territorio di Rocca di Cambio. Ma rileggendo il celebre libro di Benedetto Croce « La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza » ho trovato la giusta spiegazione a pagina 231. Riferisce, infatti, lo storico, di un’osteria napoletana detta del Cerriglio, diventata famosa nel ‘500 anche fuori d’Italia e cantata persino dai poeti. Era lì che si radunavano soldati e avventurieri d’ogni sorta che « trincando e gozzovigliando spacciavano chiacchiere e bubbole e non si astenevano da furfanterie ». Il vocabolo, originato da un nome locale di Napoli, passò nella lingua spagnola come « chorrillo » successivamente è rimasto nel linguaggio dialettale, come luogo dove si mangia e si beve piuttosto allegramente.
E, infatti, allegramente si mangiava e man mano che si avvicinava l’ora del pranzo crescevano le nuvolette di fumo intorno al santuario. Intanto, finita la messa, la processione, con le statue dei santi, i preti e i gonfaloni, arrancava su per la costa per rientrare nella chiesa madre, mentre noi lesti, a piedi o in bicicletta, riprendevamo la via della Rocca, inseguiti dagli scoppi dei petardi della festa. Ma se dal mezzo della processione ci intravedeva fra la folla, il parroco ci chiamava per trattenerci a pranzo.
Zio per parte materna, quel prete asciutto ed occhialuto, aveva abbandonato Roma e una promettente carriera ecclesiastica per tornare a vivere nella casa di paese ad allevare mucche e cavalli, spingere l’aratro e trebbiare il grano. Ma la sera, soprattutto d’inverno, insegnava latino e greco a quei :giovani del luogo che volevano apprendere di lettere; e infatti non pochi ragazzi del posto che hanno potuto raggiungere il titolo di studio devono al suo aiuto se hanno conseguito il diploma o la laurea. Quella casa, ricca di salumi, di formaggi, di garzoni e di domestiche, ma buia e triste, il giorno di S. Lucia diventava allegra e chiassosa, piena di preti e di frati che si sedevano attorno alla tavola imbandita con il proposito di alzarsi soltanto per cantare vespero. Per l’occasione, venivano rimessi in ordine il salotto di damasco cremisi, la cappella e la camera di monsignore (da cui si godeva uno stupendo panorama dell’Altipiano), e agli ospiti di riguardo — veniva offerto un bicchierino di rosolio. Poi a sera, la carovana dei « traini » riattraversava lentamente l’Altipiano, mezza ebbra ed assonnata, fidando solo nell’istinto dei cavalli. E il lungo tracciato della « provinciale » si trasformava in un mobile serto di lumicini, tenuo, fatuo, dovuto alle lanterne che i vetturali appendono sotto l’asse del carretto.
Mario Arpea