venerdì santo
Racconto del Professor Mario Arpea tratto dal libro "La strada del ritorno".
Al sepolcro, da oltre due secoli, il Capitolo aveva destinato quell’ala della Chiesa madre che qual-che anno fa è stata abbattuta per dare più spazio alla facciata e che era buia, umida e ingombra; ma più buia diventava durante la settimana di passione. Là dentro, il simulacro del Cristo morto, vegliato dalla patetica statua dell’Addolorata, al pallido riflesso dei ceri, appariva ancora più livido e spettrale, ma vivido restava, col passar degli anni, il rosso della piaga aperta sul costato che l’artista aveva marcato con un intenso realismo su quel corpo martoriato e che, alla fine, più d’uno non reggeva dall’andare a baciare.
Profondo era il silenzio delle donne che pregavano lì intorno. Ognuna, entrando andava a deporre per vecchia consuetudine ai piedi della bara un vasetto di terra nel quale erano appena spuntati i teneri germogli di legumi o del grano, appositamente coltivati.
Ma fuori, sulla piazzetta, la gazzarra dei ragazzi era grande. I più piccoli impazzavano con lo stridulo suono delle «raganelle»; quelli più grandi litigavano tra loro per accaparrarsi i «sacchi» delle confraternite e per comparire vestiti nella processione del domani.
Le liti più accese avvenivano, tuttavia, per impossessarsi degli arnesi del supplizio, i chiodi, le tenaglie, la scaletta e il martello nonché l’elmo e l’alabarda che spettavano alla stessa persona e che alla fine qualcuno con la complicità della sagrestana, riusciva quasi sempre a fare suoi. L’elmo e l’alabarda erano armi del ‘500, perse o lasciate quassù da qualche soldato di ventura e da allora erano forse entrate a far parte del cerimoniale della processione del venerdì Santo.
«Fettocchia» faceva la sua comparsa poco prima che cominciasse la predica di notte, la sera del giovedì. Attraversava le navate ginocchioni lugubremente flagellandosi con pesanti catene e il frate cappuccino che poco dopo s’affacciava sul pulpito non mancava d’additarlo come il simbolo della contrizione. Di quelle prediche lunghe ed ampollose m’è rimasto un ricordo confuso e curioso, denso di apocalittiche minacce, di diavoli e d’angeli custodi pronti a difendersi da quelli con le spade sguainate sull’immagine del S. Michele Arcangelo dipinto da Guido Reni, la cui riproduzione domina l’intera parte dell’altare maggiore della chiesetta di S. Angelo in piazza, già cappella gentilizia dei Barberini.
Ma torniamo a parlare della processione.
Alle quattro del venerdì, il corteo muoveva dal Sagrato. Innanzi a tutti andava la «ticchi-tocca». Poi veniva Francuccio con la croce d’argento, abbrunata da un panno viola. Seguiva la Confraternita dei «rossi» con il priore dal cappuccio alzato; quindi la confraternita dei «bianchi» (i Neri ai miei tempi non c’erano più), le beniamine, le veroniche ed i farisei. La croce pesante del supplizio la portavano, a turno, i «cirenei» più forti del paese. Infine venivano i preti, la bara del Cristo e la statua dell’Addolorata.
Giunti sulla piazzetta Cocciante, la processione si fermava ed il predicatore saliva su una pedana per iniziare la sua prima fatica. La seconda stazione avveniva in piazza e questa volta la predica durava di più; la terza fermata succedeva dalle parti del Borgo; quindi le statue rientravano in Chiesa che cominciava ad imbrunire (ma quando la Pasqua cadeva alta era già notte).
Gli oggetti che erano stati tanto contesi, venivano dismessi e abbandonati frettolosamente nei locali delle Confraternite, ad onta dei richiami dei Priori e tra la disperazione di Maria Felicita.
Giunti a casa si andavano a riporre anche le raganelle e si addentavano «palombelle» e «cavallucci».
L’indomani scioglievano le campane e si pensava solo ad organizzare la cucinella del lunedì dell’Angelo.
Mario Arpea