Un inverno di tanti anni fa

Racconto del Professor Mario Arpea tratto dal libro "I giorni dell'Altipiano".

Non ho visto mai più tanti uomini insieme – nei nostri spopolati borghi montani – da quell’inverno di sessant’anni fa.

Ai soli abitanti stagionali – vecchi, donne e bambini – s’erano aggiunti i reduci che alla spicciolata avevano potuto riguadagnare la casa dopo lo sfacelo per il fermo di ogni sorta di lavoro, qualche soldatino sbandato, speranzoso di varcare le linee per ricongiungersi alla famiglia separata e uno straordinario miscuglio di sfollati, internati, rifugiati di diversa estrazione origini e credenza religiosa. accomunati dal caso lassù. Attorno a quell’inedito mosaico. capricciosamente composto dalla guerra, una stagione particolarmente cruda aveva avvolto come un velo di ghiaccio, tutto increspato d’ansie, d’angosce e di paure.

Il fronte si era fermato una settantina d kilometri più a sud, ma il timore che si potesse rompere e travolgere tutti nel cuore di un inverno impietoso, teneva con l’animo sospeso persino coloro che non vedevano l’ora che non arrivassero le armate alleate per sottrarli all’incubo della deportazione.

Certe sere, quando sficcando nella neve, quell’umanità occupava le bettole e i caffettucci fiochi e affumicati, sembrava stesse uscendo dalle pagine di un libro di Kafka. Si respirava un’atmosfera quasi surreale in quegli appesantiti dagli umori e dai fiati, solo scossi di tanto, dagli scoppi della tosse, dai sarcasmi o dalle imprecazioni: un’atmosfera che proiettava il naufragio delle identità. l’eclissi dei valori, l’inconsistenza effimera delle cose su quella folla amorfa e rassegnata che aveva perso (nascosto) ogni segno d’identità nel rifiuto di discernere dove fosse la verità e la ragione, di chi fosse resistente e chi renitente, patriota o traditore, vincitore o vinto. Lì dentro ciascuno si fingeva un clandestino anche se sentiva che i segreti, i sotterfugi, i sospetti e gli errori che si portava dentro, erano quelli dell’altro, attanagliato dagli stessi problemi. Le notti – interminabili – sembravano prolungate dall’oscuramento e dal coprifuoco; ma obbligavano alla riscoperta della poesia del fuoco con gli allegri crepitii, i misteriosi sibili, repentini guizzi della fiamma che scandivano le sembianze degli astanti come flash di fotografia.

Quando imperversava la tormenta, i controlli – del resto mai rigorosi – cessavano d’esistere, perché anche la ronda amava rimanere al chiuso. Accadeva, allora, di trovare seduti davanti al focolare di una casa ospitale, soldati tedeschi, “sconfinati” e sbandati che conversavano tranquillamente insieme e poi magari uscivano uniti, al lucore dello stesso lanternino, verso le rispettive abitazioni. Non che fosse venuta meno la diffidenza tra le parti, ma si accettava la realtà salvando le apparenze e scambiandosi piccoli servizi e favori (il cartoccetto di zucchero in cambio del tutarello di burro, il tubetto d’aspirina con il “treppizzi” di lana). Erano spuntati fuori anche gli interpreti, nella persona di due donne di origine tedesca, sposate a emigranti locali. Una di queste fin lì nota perché si arrangiava a “gettare” il bando nel suo stentato accento straniero – era diventata indispensabile se si voleva ottenere un passaggio verso la città su automezzi militari, gli unici in circolazione. Ma muoversi, costituiva sempre un’avventura.

Forse erano quelli gli ordini, certo si era tacitamente instaurato un rapporto di coesistenza tra occupanti e occupati, per cui i primi cercavano di rendere meno ingombrante la loro presenza, i secondi cercavano di cancellarla addirittura. Gli uomini, per esempio, avevano deciso di non esistere quando si trattava di dover rispondere ai rinnovati “bandi” di chiamata; però si recavano ugualmente a “segnarsi” al servizio del lavoro, una specie di agenzia di collocamento che corrispondeva agli iscritti una paga dietro l’obbligo di fornire prestazioni operaie. Forse per bisogno, forse per fatalismo ci andavano tutti o quasi (anche gli ebrei, sotto falso nome, ma nessuno stava lì a denunciare) pur con la paura dei rastrellamenti, di cui ogni tanto correva voce. Così, appena tornava il bel tempo, centinaia di spalatori uscivano agli ordini di un tenente dell’esercito repubblicano, per liberare le strade dalla neve.

Un lunghissimo serpentone si snodava al centro della via provinciale, dal Gamberale alla Croce del Barile e forniva la misura esatta del gran numero di uomini che vi erano impegnati (e non erano nemmeno tutti perché molti, ad ogni buon conto, continuavano a tenersi nascosti dentro le case).

Sgomberata la strada, riprendeva subito il frenetico andirivieni degli automezzi e con essi riapparivano, nel cielo terso, i ricognitori alleati, altissimi sul pianoro immacolato. Il giorno che uno di questi perse quota e cadde, dopo un estremo tentativo d’atterraggio a Pezza, furono in parecchi ad accorgersene, ma a piombare sul posto per primo fu un piccolo professore sloveno, da tutti ritenuto un pessimo sciatore. Come avesse fatto ad arrivare tanto presto, e cosa avesse detto all’aviatore lui solo lo sa, perché quando giunse in loco mia pattuglia di tedeschi (e intanto s’era fatto scuro) il pilota non c’era più e al mattino era scomparsa ogni sua traccia, coperta dalla nevicata. È rimasto un mistero dove fosse diretto e chi lo avesse aiutato con quel tempo e in quella plaga; corse voce che un ufficiale inglese aveva trovato rifugio – quei giorni – al Corvaro (l’apparecchio – presto ridotto in pezzi – era di marca inglese), ma che fosse così non si poté appurare.

Naturalmente il professore negò: tuttavia lui e gli altri “internati” furono sottoposti da quel momento a una sorveglianza maggiore.

Gli “internati” erano arrivati due o tre anni prima, la gente del posto li aveva accolti bene, qualcuno ci si era sposato. La maggior parte era stata “confinata” per misura precauzionale, gli ebrei perché erano scattate le leggi razziali. Appartenevano ad ogni età e condizione: professionisti, impiegati, operai, studenti ed artisti.

Di tanti mi sfugge il ricordo, ma alcuni li ho perfettamente presenti anche ora:

l’editore stravagante e parolaio dal tondo eloquio toscano. sempre elegantemente vestito, col bastone dal pomo d’avorio e gli occhiali cerchiati d’oro, che nei caldi meriggi estivi si meschiava ai ragazzini tuffandosi nudo nei bottegoni; un turco lungo e dinoccolato, scaricatore di porto o marinaio, che al tramonto pregava sempre Allah, ma preferiva libare a Bacco nella squallida stamberga di una sciagurata; un pittore ungherese dall’aria sofferente e dalla barba grigia arruffata, di cui qualcuno conserva ancora i disegni e del quale sono rimasti gli affreschi sulle pareti di un esercizio cittadino; il dottore torinese figlio di un clinico affermato, buon medico lui stesso, ottimo camminatore e appassionato sciatore in compagnia di un giovane che – finita la guerra – percorse una facile carriera nei ranghi della diplomazia;  un professore sloveno chiuso e scontroso, che conosceva a menadito la zona, sembra che girasse anche di notte e la perfetta dimestichezza dei luoghi gli giovò, quando riuscì a scappare sotto il naso delle SS venute per catturarlo; un tenore polacco dal carattere cordiale che organizzò anche dei concerti in una sala del municipio e il cui pezzo forte era “Marta” di Flotow; lo studente greco – Stakis mi pare si chiamasse – neppure ventenne che s’era ritrovato al confino mentre studiava legge a Roma. Era il più avvilito, se ne stava solo soffriva sempre il freddo.

Il giorno che mi confidò che disperava d’essere trasferito in una località più temperata perché le sue reiterate istanze rimanevano senza risposte, m’offersi ingenuamente di perorare la sua causa di persona. E quando alla fine di novembre tornai all’Università, pregai una persona amica di procurarmi un appuntamento al Ministero. L’ispettore mi accolse con sospetto, quasi con ira. Ricordo benissimo il nome: stava dietro la scrivania, massiccio, la faccia grintosa, i radi capelli sale e pepe sul cranio pelato… “Perché v’interessate a questo tale? È forse vostro parente” – disse- (all’epoca era d’obbligo il “voi”) “No l’ho conosciuto appena …” “Allora fatevi i fatti vostri. La patria è in guerra e deve difendersi dai suoi nemici!” “Ma – azzardai – lui…” “E adesso vai” (era passato perentoriamente al “tu”) – troncò minaccioso il potente ispettore, alzandosi in piedi. Così mi ritrovai nel corridoio, giallo o rosso in viso, non so se più umiliato o impaurito per quella buona intenzione andata male. A Natale riferii all’interessato. Poi, anche a me toccò l’amara esperienza delle armi. E dello studente greco, non ho saputo niente mai più.

Mario Arpea